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Chi vive vola


Chi vive vola
 
( testo di Nicola Andreini )
 
I miei primi anni della verticale, degli sport e delle attività della verticale, furono contraddistinti da una disinibita attitudine verso il “volo”. Pur non essendo del tutto estraneo all’ambiente montagna non avevo mai considerato la possibilità di cadere, anche se solo incidentalmente. Appena mi fu chiaro il meccanismo della salita in ambiente di falesia, mi fu altrettanto chiaro che potevo continuare a disinteressarmi del “volare” e delle sue eventuali conseguenze. Occorre dire che mi trovavo in una accolita di volenterosi autodidatti, tutti più o meno provenienti da attività “aeree”, ovvero eravamo tutti ex paracadutisti  militari e molti avevano anche praticato parapendio e deltaplano. Quindi già il termine “volare” non angosciava nessuno, tutt’altro.
La svolta radicale avvenne con la frequentazione degli ambienti istituzionali dell’arrampicata e dell’alpinismo, siamo nei primi anni novanta del secolo scorso.
Lì avvenne la perdita dell’innocenza. Fui pesantemente redarguito e censurato, la mia attitudine suonava barbara ed eretica. Mi furono somministrate le primi rudimentali nozioni di fisica e meccanica del “volo”, era la versione laica di un sacro timore.
Con il tempo, pur non avendo mai più ritrovato quella giocosa disponibilità, mi sarei comunque liberato dall’ossessione ragionieristica di far quadrare il bilancio dei fattori di caduta.
Dei primissimi tempi è rimasta l’ebbrezza della perdita di peso, dello stacco dalla gravità e dall’ombra. Nei miei voli, i più ingaggianti concentrati tutti negli ultimi due anni, riemerge una sensazione che nessuna consapevolezza del rischio potrà mai tacitare. E non si tratta più del favorevole ambiente della falesia di arrampicata sportiva. Lo scenario è la montagna, la parete, anche se di quota moderata. Le protezioni hanno il formidabile, “formidabile” come lo avrebbe inteso Leopardi, ovvero “pauroso” segno della precarietà. Queste spesso sono rimovibili e piazzate dal primo di cordata. Ma nulla cambia, al momento dello stacco, della caduta si è scevri da calcoli e dai loro presunti risultati. La vasta letteratura dell’alpinismo e della montagna è poi abbastanza parca della narrazione dei sentimenti e delle emozioni  provati al momento del volo, forse troppo preoccupata delle conseguenze o, se non ce ne sono state, dello scampato pericolo.
Qualche rapido cenno intorno alle mie cadute, ai miei voli più significativi, per un parametro soggettivo. Magari ho corso pericolo maggiore in altre circostanze, ma non me ne sono reso conto.
Due di queste e di questi si sono svolte da primo di cordata, una da secondo. Sempre in compagnia di un buon amico, l’intesa e la fiducia con lui ha certamente influito sul vivace colore con cui questi episodi si sono fissati nella mia memoria e con il gusto estetico con il quale li condivido.
Nella caduta da secondo ho perduto oltre all’equilibrio, il controllo delle emozioni, ed ho gridato. Gridare proficuo ed indispensabile, infatti ha allertato i sensi ed i riflessi del capocordata che, su ambiente precario ed improteggibile, procedendo inoltre noi “di conserva corta”, è stato in grado di dissipare prima ed arrestare poi una caduta che, per cedimento di una sezione di parete sotto i miei piedi, avrebbe potuto avere gravi conseguenze per entrambi.
Gli altri due voli, questa volta da “primo” sono sempre stati causati dal cedimento della roccia, in entrambi i casi la protezione decisiva per la mia incolumità era stata piazzata da me. Nel primo caso un piccolo “friend”, il blu della nota ditta americana che si merita la citazione, Black Diamond. Eravamo su uno dei pochi tiri in libera di una quotata via d’artificiale al Nona, Alpi Apuane, subito al debutto della salita, in traverso ascendente. La fessura che avevo attaccato e stavo percorrendo si è sbriciolata sotto le mie mani consegnandomi allo strappo dinamico sul piccolo dispositivo a camme, in una corda, e su di un vecchio chiodo a pressione nell’altra. Di questa bella caduta misurabile in qualche metro porto il promemoria inciso sul polso destro.
La terza e più recente è anche la più bella, per lunghezza e dinamica. Eravamo intenti ad effettuare una delle prime ripetizioni di una nuova via in stile classico sempre sulle Alpi Apuane. Non solo, eravamo stati in gradi di rettificare l’itinerario con due nuove lunghezze mantenendo uno stile pulito e severo. Alla fine di un tiro con uscita in artificiale, da me attrezzato, è crollato il terrazzino sul quale mi ero issato. Ho ripercorso quasi tutto il tiro di corda a testa in giù, privato così della possibilità di veder scorrere l’itinerario davanti ai miei occhi. Mi ha tenuto un chiodo universale che ho poi rimosso e conservato, il promemoria è stato transeunte, il tempo necessario alla cartilagine del costato di riacquisire forma ed elasticità.
A volte basta molto meno per riportare serie conseguenze, tutti potremmo citare casi simili scelti nel novero delle nostre conoscenze. Sono grato tanto alla buona sorte quanto alla perizia di chi mi ha tenuto. Avvicinarsi alla montagna con rispetto e gioia, andare lievi e sereni verso un gioco dove l’errore, l’approssimazione per difetto del calcolo o il caso fortuito potrebbero segnarci gravemente è una possibilità in più che ci è concessa per essere leggeri al momento del volo. Rilassati e decontratti in modo da non sollecitare troppo la tenuta degli ancoraggi esterni né di quelli interni. Intendendo con questi ultimi le motivazioni che ci portano ancora, nonostante tutto a salire a dispetto della gravità.